i vaccini non bastano. “Deforestazione significa nuove pandemie”

L’allarme dell’Università USA: il degrado dell’ecosistema è alla base delle nuove pandemie. “Il Covid ha imposto una spesa di 6 mila miliardi. Proteggere la natura costerebbe 50 volte meno”

di Matteo Cavallito

 

Ascolta “Harvard: vaccini e cure non bastano. “Senza tutela della natura in arrivo nuove pandemie”” su Spreaker.

Gli investimenti massicci sul fronte sanitario non potranno frenare da soli le pandemie del futuro. Per bloccare, o per lo meno limitare, la diffusione di queste ultime, infatti, occorrerà anche operare nella tutela della biodiversità e nella conservazione della salute della terra. È la conclusione dell’ultimo studio realizzato da un pool di esperti di tre continenti coinvolti nell’International Scientific Task Force to Prevent Pandemics at the Source, un progetto dell’Università di Harvard. Al cuore del problema, riferisce lo studio diffuso in questi mesi, il noto fenomeno del salto di specie che consiste nella trasmissione dell’agente patogeno dagli animali all’uomo. Un evento favorito a sua volta dal degrado della natura, come già segnalato anche dagli esperti del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) e della FAO.

Le cattive pratiche agricole alla base della trasmissione animale-uomo

Ad alimentare il fenomeno sarebbero diversi fattori spesso concomitanti: dall’allevamento intensivo alla caccia indiscriminata; dallo sfruttamento della terra alla deforestazione, fino alla crescita dell’urbanizzazione. “L’agricoltura è associata a più del 50% delle malattie infettive di origine animale che sono comparse negli esseri umani dal 1940″, spiegano i ricercatori. “Di fronte all’incremento demografico e alla crescita dell’insicurezza alimentare legata alla pandemia, gli investimenti nell’agricoltura sostenibile e nella prevenzione dello spreco di colture e cibo sono fondamentali per ridurre le perdite di biodiversità, conservare le risorse idriche e prevenire ulteriori cambiamenti nell’uso del suolo, promuovendo al contempo la sicurezza alimentare e il benessere economico”.

Un ruolo decisivo lo interpreta anche il cambiamento climatico che contribuisce a ridurre lo spazio vitale degli animali spingendoli a spostarsi alla ricerca di nuovi habitat. Questo processo, in particolare, sembrerebbe dare ai patogeni l’opportunità di trovare nuovi organismi ospitanti.

Fermare le pandemie? Costa il 2% degli sforzi anti Covid

Il risultato è che le cattive pratiche di gestione del suolo e degli ecosistemi vanificano anche gli sforzi, pur necessari, compiuti da medici e ricercatori. “Per gestire il Covid-19, abbiamo già speso più di 6 trilioni di dollari per quelli che potrebbero rivelarsi i cerotti (Sic) più costosi mai comprati”, spiega Aaron Bernstein, direttore del Center for Climate, Health, and the Global Environment di Harvard e coordinatore dello studio. Quanto ai vaccini, aggiunge, “a prescindere dall’ammontare degli investimenti essi non potranno comunque mai proteggerci del tutto da future pandemie”.

Insomma, sebbene efficace nel limitare drasticamente la diffusione del virus di oggi e l’incidenza delle forme gravi della malattia, la profilassi vaccinale non può offrire una protezione contro nuovi patogeni.

Per questo, conclude Bernstein, “dobbiamo intraprendere azioni che prevengano la comparsa delle pandemie, fermando la trasmissione delle malattie dagli animali agli esseri umani”. Contemporaneamente, aggiunge, “possiamo anche contribuire a stabilizzare il clima del Pianeta e a rivitalizzare la biosfera”. Due aspetti, questi ultimi, “essenziali per la nostra salute e il nostro benessere economico”. Secondo i ricercatori,  per prevenire la prossima pandemia riducendo la deforestazione e regolando il commercio della fauna selvatica servirebbero 22 miliardi di dollari all’anno. Pari a circa “il 2% dei costi economici della risposta al Covid”.

Meno deforestazione, più assistenza sanitaria

Le raccomandazioni di Harvard, già avanzate al G20 e tuttora in discussione alla COP26 di Glasgow, si basano sull’avvio di una doppia strategia. Ovvero investire in un’assistenza sanitaria sempre più universale e impegnarsi, al tempo stesso, per salvaguardare gli ecosistemi. “Un esempio di successo di questo modello integrato viene dal Borneo“, spiegano i ricercatori. Nell’isola, infatti, “un decennio di lavoro ha portato a una riduzione del 70% circa della deforestazione e ha permesso l’accesso alle cure sanitarie a più di 28.400 pazienti“. Oltre a produrre una “sostanziale diminuzione di patologie come la malaria, la tubercolosi e le comuni malattie dell’infanzia”.

La lista delle raccomandazioni, tra le altre proposte, include l’aumento della biosicurezza del bestiame specialmente negli allevamenti vicini agli insediamenti umani. Oltre alla crescita degli investimenti nei sistemi sanitari dei Paesi in via di sviluppo e alla valutazione degli impatti economici delle attività di prevenzione. Fondamentale, infine, migliorare la comprensione delle dinamiche delle pandemie e dei fattori di rischio ad esse associati.

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